domenica 8 marzo 2009

Formiche guerriere

Ricordo colonne nere rigare il terreno, ricognizioni dall’alto con truci occhi d’avvoltoio, individuare il corso della vita e escogitare il modo di spezzarlo con assalti ripetuti dal mattino scintillante al vespero rutilante. Mio cugino e io, decenni, soldati di una guerra inutile, quale pretesto la sfida degli esseri più numerosi che proliferavano lì dove pretendevamo d’essere i soli regolatori del creato. Una volta assaltavamo villaggi nativi tra la gramigna, avventurieri di un esercito coloniale, spazzavamo accampamenti circolari, massacravamo formiche rosse o pellirosse. Osservavamo le antenne rosse o gli addomi acciaccati e neri asciugare al sole giovane della primavera texana o a quello spietato dell’estate africana. Colpivamo con l’indice il terreno e, con il dolore che ci arrecava picchiettare sulla ghiaia, stilavamo il computo delle nostre perdite giornaliere. Con il dito gonfio ci stringevamo alla sera le mani, solidali nel rimandare l’ultima carica alla prima dell’indomani.

Poi un giorno, mentre ci rincorriamo tra l’erba, colpiamo il tronco d’un mandorlo ritorto. Dalle arterie d’un ramo secco e monco escono frotte di formiche di un colore scuro brillante. Siamo costretti temporaneamente a ripiegare, sorpresi dal numero preponderante. Concordato un piano di battaglia, ci avviciniamo lentamente e cominciamo a eliminare le sentinelle sulle torri della fortezza con colpi precisi di carabina, come cecchini che, avendo un lungo esercizio del loro mestiere, non contano più le vittime, ma il tempo che queste impiegano a cadere. Un colpo solo non è più sufficiente ad arginare la piena d’insetti che erompe dai canali del legno come da altrettante trincee. Così si moltiplicano le armi e le dita: doppietta con indice e medio, mitraglia dall’indice al mignolo; quando schiocca il palmo sul legno ruvido, il polso sussulta, la gola ha un’eco e un singulto: è caduta la bomba. Sangue aromatizzato dall’essenza dell’albero rinfresca mani peste da ore di assalti alla baionetta, da lunghe giornate passate a ponderare sul da farsi, alla soluzione migliore per vincere la battaglia e chiudere la guerra ché il caldo monta e si è sempre più stanchi. Previsioni ottimistiche sfioriscono con la stagione di sangue. Scaramucce in autunno tra compiti e scuola, vuoto e freddo inverno a interrogarsi sulle forze del nemico, sull’esito del conflitto infinito. A trovarsi attaccati d’improvviso nei tepori della propria casa, a esser derubati delle briciole del pranzo di Natale cadute sotto il tavolo; a inseguire e finire gli invasori, a colpire con il polpastrello lo spigolo del termosifone e morirne per l’offesa e il dolore.
Gorgheggi d’uccelli, alberi in fiore: la primavera è tornata leggiadra, ma per me e mio cugino essa significa attuare la promessa di morte a lungo meditata. Di nuovo scuotiamo a calci il tronco e ci abbassiamo nelle nostre postazioni per logorarci in serie infinite di cariche e ritirate. Le formiche astute hanno imparato a riconoscere i colpi con i quali usiamo cavarle dal tronco e escono più di rado. Talvolta mandano delle unità volanti in perlustrazione che noi prontamente abbattiamo con la contraerea delle mani o spruzzando in aria l’insetticida sottratto alla zia. Tossiamo via il veleno e giuriamo di non servirci più di questa subdola arma tossica che “fa vittime” anche tra le nostre “fila”. Il formicaio s’approvvigiona dai campi circostanti. Sovente gli assediati tentano un assalto in forze per distrarci, mentre le operaie fanno capolino dalle uscite secondarie al prezzo di centinaia di corpuscoli sfracellati che esplodono della linfa di cui si sono satollati in aromi inebrianti di morte, ammonticchiati gli uni sugli altri nelle pieghe del tronco chiazzato di licheni. Noialtri fanciulli imprimiamo lo scempio in occhi arrossati dal sole e inorgogliamo, sebbene nelle nostre menti si dilati il sospetto che, a dispetto del numero minore di formiche inviato a contrastarci, nel cuore del legno si stia armando un esercito più numeroso e che un altro anno non basterà per espugnare il forte.

Autunno: la legna scoppietta nel camino, il latte caglia, s’arrostiscono i peperoni, il grasso del maiale sfrigola, si imbotta il vino. Il mandorlo è vecchio e sbilenco. Arriva dall’alto, da mio padre, il comando d’attacco tanto atteso. Mio cugino e io impugniamo la sega e recidiamo il tronco tra una carica e l’altra dei difensori che hanno presagito il loro potere finito. Crudeli, accendiamo un fuoco di foglie secche senza dover più temere che la fiamma s’espanda alle sterpaglie estive. Dirigiamo la vampa a strinare le schiere nemiche di morte istantanea. Alcuni insetti appena bruciacchiati si contorcono nei canali della scorza, scossa dal ruggito della lama, e vengono lì inchiodati da raffiche di mitraglia. La base del mandorlo si spacca. Con un calcio viene finalmente divelta. Un fiume di invertebrati ci sommerge con una carica disperata. Il fuoco consolida il proprio dominio. Ecco la formica regina! A mio cugino l’onore, a patto che la spacci con un sol colpo di fucile che egli non fallisce. La fiamma divampa, la corteccia annerisce. Bruciano le antenne e le zampine crepitanti. Tra i trucioli del legno scopriamo le uova. Decidiamo di distruggerle per non dover combattere una nuova generazione di imenotteri. Alla sera l’albero è stato sezionato, qualunque essere l’abbia abitato, ammazzato e bruciato. Le formiche sono cenere. Il castello è conquistato. Serti di fumo bianco e azzurrino confluiscono nel crepuscolo ottobrino, velato di nubi leggere, a segnalare i resti del campo di battaglia. Esausti, i due cugini si guardano a tratti, si scambiano un sorriso compiaciuto, il loro legame suggellato da uno sforzo congiunto e prolungato, da un dolore condiviso, dal pericolo passato. Eppure una domanda s’affaccia dai loro sguardi trasognati alla placida memoria, smorza squilli di tromba e inni di gloria: vale aver annientato l’enorme potenza creatrice del minuscolo nemico per acquisire al contempo coscienza del peccato perpetrato; d’aver arbitrariamente vulnerato l’equilibrio e la magnificenza del creato; afferrare per contro l’essenza dell’uomo dopo cruda e silenziosa riflessione, commisurare la sua grandezza alla capacità di distruzione?
da "Insetti della mente", Edizioni Tracce, Pescara, 2006



Warlike ants

I recall black strings across the ground, vulture-eyes-overhead-reconnoitring. Finding out the stream of life and invent the way to rend it by reiterate assaults from the shining morning to the bleeding dusk. My cousin and I, both ten, soldiers of a useless war, waged in response of the challenge by the most numerous beings that proliferated just where we demanded to be the only regulators over the creation. Once we attacked native villages in the weeds and, scouts of a colonial army, swept out their circular camps. We slaughtered either red ants or redskins. We looked at either red antennas or squashed and black abdomens drying up under the young sun of a Texan spring or that unremitting one of an African summer. We beat the ground with our indexes, and reckoned our daily deceases by the pain of pattering on the gravels. In the evening, we shook hands with a turgid fingers, both agreed on postponing the today’s last assault to tomorrow’s first.

Then, chasing each other in the grass one day, we strike a writhed almond tree’s trunk. Brilliant black ants go out of the arteries of a dry and mutilated branch. We are temporary compelled to recoil, bemused by the overwhelming number of enemies. After having arranged a battle plan, we slowly approach and begin to eliminate the sentries on the fort’s towers by precise rifle’s shots, like snipers who have so long a skill in their service, and therefore do not count their victims anymore but the time they need to fall. Only one shot does not suffice to obstruct the flood of insects that breaks out from as many wooden channels as trenches. So weapons or fingers are multiplied: double guns rifle by index and middle finger, machine gun from the index to the little finger; when the palm snaps on the rough wood, the wrist startles, the throat utters an echo and a gulp: the bomb has fallen. Almond-tree’s-essence-flavoured blood refreshes aching hands after hours of bayonet assaults, after long days elapsed by pondering over the strategies to be taken, over the best solution for winning the battle and war because the hot rises and the two boys are more and more weary. Optimistic previsions fade in the blood season. Autumnal scuffles in the school time, cold and empty winter spent by wondering about the rival forces, about the everlasting conflict’s end. To discover themselves under a sudden attack in the warmth of one’s home, be rubbed of the Christmas dinner’s crumbs under the table; pursuing and kill the intruders, beating accidentally the radiator’s corner with the fingertip, and dying for offence and pain both.
Birdsong, blossom trees: spring has gracefully come back, but that means only implementing the long meditated promise of death, for my cousin and I. Once again we agitate the trunk by kicks and bent down in our trenches, wearing out ourselves in everlasting series of charges and withdrawals. The cunning ants have learned how to recognise the strokes whereby we are used to call for them out of the trunk, and therefore they go out more seldom. Sometimes they deliver some flying units to reconnoitre, whom we readily down by our hands’ anti-aircraft, or by spraying the insecticide grabbed from my aunt. Then we cough away the poison and swear up not to use that sly chemical weapon that makes victims also amongst our arrays.
The provisions of the anthill come from the surrounding fields. Often the besieged animals attack us in forces in order to distract us, while the workers are coming out by the secondary exits, at the price of hundreds of ragged corpuscles that explode of the sap of which are plenty in intoxicating flavours, piled one on another in the wrinkles of the moss-stained-trunk. We youngsters impress the smash-up in sun-reddened-eyes, and get proud, although the suspect broadens in our minds around the number of the ants that come to contrast us, while a even more numerous army is gathering in the wooden core. Likely another year will not be sufficient to conquer the fort.

Autumn: the timber crackles in the fireplace, the milk curdles, the peppers are roasted, the pork-grease frizzes, the wine is put in casks. The almond tree is old and wry. From my father the so longed command arrives. My cousin and I take the saw and sever the trunk amid the reiterate raids of the foes which perceive their power come to an end. Cruel fellows, we light up a dry-leaves-fire without fearing any flame will extend to the summer stubs. We direct the blaze to singe the rival arrays with instantaneous death. A few half burnt insects writhe in the bark channels that is roused by the blade’s roaring, and they are nailed on there by the bursts of our machine guns. The almond tree’s basis splits, uprooted at last. A river of invertebrates submerges us with a desperate charge. The fire consolidates its dominion. Here is the queen-ant! The privilege to my cousin, on condition that he dispatches her by only one rifle’s shot which he does not mistake. The flame glows, the bark blackens. The antennas and the crackling little legs burn away. We discover the roe amidst the wooden chips. We soon decide to destroy them all, in order that we shall not fight a new generation of hymenoptera. By the evening the tree has been dissected, whatever being had lived in it has been murdered and burnt. The ants are cinder. The castle has been conquered. White and light blue wreaths of haze flow in a soft-clouds-veiled-October-dusk to sign the remnants of the battle field. Exhausted, the two cousins glance one another, and exchange a satisfied smile, their bond strengthened by a common and prolonged toil, by a shared pain, and a passed peril. Nevertheless a question appears from their bulging looks to the placid memory, dims trumpet’s blares and hymns of glory: on the one hand, is it worth annihilating the enormous creative power of the tiny enemy and acquiring conscience of the pursued sin, having wantonly injured the creation’s magnificence? And, on the other hand, is it worth comprehending man’s essence by crude and silent reflection on commeasuring its grandeur onto the human capacity to destroy?

Italian translation by Mario Cipollone from "Mental Bugs"

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