domenica 9 agosto 2009

Pesce-cane

Un’altra alba rompe, con lividi preamboli, il flusso inarrestabile di emozioni che agita il mio petto addormentato. Immagina la costernazione nell’accorgermi che la pressione avvertita sul torace non è effetto del tuo corpo sul mio, bensì la suggestione fugace indotta dal sonno e dall’abitudine. Il braccio con il quale solevo cingerti la vita non incontra altra resistenza oltre quella delle lenzuola. La disillusione è forse la sveglia più dolorosa, ma al contempo la più efficace, dai sogni effimeri della notte. Resto a letto per alcuni minuti, tramortito dal brusco risveglio nella solitaria realtà che mi circonda. Da dietro la finestra osservo il brillare di Venere nel firmamento del primo mattino, ove le nuvole, ormai scariche della pioggia della notte scorsa, trattengono ancora le ombre nere della notte, mentre squarci di sereno rispecchiano già i primi raggi dell’astro nascente, acquattato dietro qualche tetto a oriente. Traggo auspici favorevoli per una nuova giornata d’attività fisica sentendo un’altra volta emergere, dal fondo del mio spirito, quell’energia irrefrenabile che, destandosi di concerto con le prime luci dell’alba, richiede sfogo immediato. [...]

Il porto è tutto un luccichio di lanterne. Grossi riflettori illuminano il lavoro di carico e scarico dei marinai, le acque gonfie e salse che, entrando nell’imbuto del fiume, perdono l’antico vigore e fanno danzare, in un beccheggio regolare, le chiglie dei pescherecci alla fonda. Le imbarcazioni, data l’ora, s’accingono a mollare o ad assicurare gli ormeggi. Scalpitano per le speranze della giornata di pesca che sta per iniziare o per la resa di quella appena finita. L’aria è quanto mai pungente e greve dell’aspro odore di salsedine che il mare sbuffa sui volti spigolosi e scuri degli uomini che lo sopravvivono quotidianamente, e sul mio, contratto dalla corsa e dalla brama di ridurne l’essere forte e spietato. [...] Un chiarore vermiglio si diffonde da dietro la linea netta dell’orizzonte propagandosi per il cielo ancora macchiato qua e là dai drappi neri delle nuvole che, sgravatesi nottetempo della pioggia, si fanno testé tutrici dell’oscurità della notte. I bagliori del primo timido sole inondano di luce sovrannaturale la superficie cesellata del mare e i tetti fradici di pioggia della città ancora avvolta nel sonno: fugace visione retrospettiva. Continuo la mia corsa per il lungo molo di cemento che si protende, che mi protende, sull’ignoto. Una prora gagliarda scompone il riflesso della mia figura slanciata sulle acque. Il faro, verso il quale inevitabilmente dirigiamo, comincia a segnalare in una lingua a me sconosciuta. I due destrieri avanzano appaiati, poi il traguardo: la conica e cava struttura di cemento armato, dominio della luce. Mentre io arresto la corsa sull’orlo dell’ultima estensione umana sull’abisso, il peschereccio mi sorpassa borbottando il proprio muggito di sfida all’elemento in cui s’è appena lanciato, dipartendosi dall’ombra scura che lo saluta dalla banchina e gli augura la buona navigazione. Osservo la “ciabatta” perdersi nell’orizzonte rutilante che ha oltrepassato, vellicare l’ugola del sole tremolante allo sbadiglio leonino del mattino e ridursi, ai miei occhi, in un puntino insignificante nell’immensità. [...]

Le dune di sabbia spazzate dal vento, lo stormire graffiante dei cespugli, unica flora, il moto implacabile delle onde plumbee che strappano a brani i sedimenti con il proprio ruggito feroce: questo è il deserto arenile che l’uomo affronta schivando gli spruzzi di spuma che la fiera solleva dal suo pasto infinito, calpestando le spoglie di pesci e molluschi consegnate alla riva, prede dell’oblio dell’essere e dell’opportunismo dei gabbiani. I pennuti si levano in volo per sgomberare la pista alla mia avanzata. Producono, con lo stormire delle remiganti nell’aria ostile, il rumore d’un gagliardetto strapazzato dal vento. Perché subisco il fascino di questo paesaggio inospitale? Forse perché riconosco la desolazione che mi circonda in quella che mi devasta l’animo. Mi fermo a contemplare il travaglio delle onde sedendomi a gambe incrociate su uno scoglio arenato. I gabbiani tornano a disputarsi i resti che il mare ha imbandito per loro sul bagnasciuga. Emettono alte strida da commensali ingordi che mi riecheggiano nelle orecchie e si confondono con lo sferzare del vento che le porta. Travalico con la fantasia la linea dell’orizzonte che, man mano che il sole si alza, si fa sempre più indistinta, laddove il mare ha lo stesso colore del cielo e la medesima gravità. Lontano, da qualche parte sull’Adriatico, il peschereccio testimonierà a breve la presenza dell’uomo anche su quelle acque agitate, depredandole delle creature che le popolano. L’emanazione del pesce pervade qualunque recesso dei moli, il porto e i mercati retrostanti, aleggiando nelle mie narici assorte a fiutare gli umori del mare. Non sono ancora pronto a rituffarmi nella civiltà. Preferisco accettare l’invito dell’onda. Galleggio sulla superficie irrequieta, sballottato dalla corrente come un cencio non ancora completamente inzuppato prima d’affondare. Sento dappertutto, sulla pelle, la carezza incessante del mare fatta di flussi e deflussi continui, di urla e mormorii, acuti e sospiri. Odo l’incessante sciabordio delle sue frange impertinenti insinuarsi tra gli scogli, far tintinnare la ghiaia e i ciottoli sedimentati sul fondo dalla secolare erosione dei fiumi. I sassi sfiorano i lombi dilavati, rendendomi lo stesso omaggio che una foca m’avrebbe elargito con il tocco delicato del muso. L’acqua, le pietre, le brezze assurgono a forme viventi e, come tali, convivono nell’immenso scenario del mare. Lo stato liquido mi stringe in un gelida morsa che riattiva le congeniali funzioni della circolazione sanguigna. Il sole gioca ad accecarmi rifrangendosi sullo specchio incantevole in una pioggia dorata. Girando le spalle all’oriente, riesco finalmente a penetrare con lo sguardo la superficie marina intorno a me. Scorgo il nuoto leggiadro d’un esiguo banco di alici. Le scaglie argentate dei piccoli pesci riverberano la luce che le colpisce in una miriade di scintille impazzite che si enfiano e poi ricompongono aggirando il moto sospetto dei miei piedi, come quelle d’una fiamma crepitante su ceppi accesi le quali, volando verso il cielo all’imbrunire, vengono disperse a mezz’aria da un’improvvisa folata di vento, per convergere nuovamente nella deriva della loro ascesa collettiva.

Il mare non è immune dagli scarichi e dalle contaminazioni dell’uomo. Sovente capita di dover aggirare con ampie bracciate estese macchie oleose che si cullano mollemente sulla cresta delle onde che cavalcano. I frangenti rigettano il loro carico sugli scogli o sulle pietre del bagnasciuga che recano perciò l’offesa indelebile d’una vasta onta di bitume. Alghe e molluschi, invischiati nella coltre oleosa, muoiono perché incapaci di filtrare il nutrimento loro apportato dalla corrente marina. Vispe aringhe e muggini scaltri, che si crogiolano sin dalla nascita nel refrigerio acqueo, trovano nell’insenatura un porto franco dove poter riposare e rifocillare. L’abbondanza di pesci richiama sulle scogliere circonvicine una cospicua rappresentanza di rapaci del mare. Gabbiani e cormorani presidiano le acque sottostanti dalla sommità dei loro posatoi preferiti. Immobili sentinelle, dissimulano l’attenzione con la quale scrutano dabbasso. Sebbene taluni possano restare per ore e ore con le ali spiegate, il petto e la gola allungata esposti al sole che li asciuga; nonostante tal altri rinfoderino, soltanto temporaneamente, il becco acuminato nell’umida guaina della regione sotto-ascellare, forbendolo alle ispide penne locali, un torvo occhio orlato di giallo brilla perenne del riflesso crudele del mare. Allorché questi uccelli si avvedono d’uno scodare sospetto sotto il pelo dell’acqua, sono lestissimi nell’assumere la posizione siluriforme di pesca e tuffarsi tra le onde dalle quali sovente riemergono con la preda attanagliata nel becco. Appollaiatisi nuovamente sullo spuntone strategico da dove il loro fulmineo attacco è partito, dilatano oltremodo il gozzo elastico per ingollare intera la propria vittima. Sardina o merluzzo scompaiono inesorabilmente nella sacca piumata la cui fame inestinguibile hanno provvisoriamente sedato. [...]
Dopo un paio di robuste bracciate, torno a nuotare in direzione dello scoglio sul quale ho ammucchiato i vestiti. Posso distinguere perfettamente gli orli frusti della tuta scolorita e il tacito consenso delle scarpe da ginnastica dalla punta all’insù che mi sorridono indulgenti dalla scanalatura delle suole. La temperatura corporea s’è ormai completamente assuefatta alla rigidità dell’acqua che defluisce dalle curve nodose delle braccia e del dorso lambendomi dolcemente la pelle con un bacio prolungato, allorché ne esco. Mai come ora ho sentito le mie fibre traspirare altrettanto pienamente, ancorché il sale mi pizzichi l’epidermide rapprendendo al vento. Dopo aver indossato i vestiti e infilato nuovamente le scarpe, mi sollevo da terra e riprendo la corsa. Torno verso il porto e la civiltà dalla quale troppo più spesso cerco esilio per percepirne ovunque la palpabile presenza. Basta osservare la moltitudine di oggetti di plastica che il mare restituisce al mittente insieme con i suoi detriti per avere un’idea dello scempio irriverente che l’umanità ogni giorno perpetra sulle acque del globo. Colli di bottiglia spuntano tra le dune insieme alle siringhe, monito per le persone che già intravedo avvicinarsi alla riva con i cani al guinzaglio: uomini e donne amanti degli animali che riservano quotidianamente le prime ore del mattino alla ricreazione delle proprie bestie, affinché queste si sgravino dei bisogni trattenuti durante la notte e godano di un’oretta di libertà dal guinzaglio e dalle altre restrizioni imposte dalla vita urbana. Splendidi setter irlandesi, pointer e pastori tedeschi sfrecciano sollevando la sabbia con le zampe frenetiche. Azzannano il pezzo di legno lanciato dal padrone con la destrezza propria dei loro antenati selvatici. Nel proseguire la corsa fuori dal porto, scorgo ormai indistintamente il balenare delle schiene forti e arcuate. Mi inseguono negli orecchi i latrati di trepidazione con cui i cani sollecitano il padrone a lanciare il bastone un’altra volta e più lontano. Poi il mio udito è nuovamente saturato dallo scalpiccio ritmico dei miei piedi sull’asfalto, dal pulsare del cuore, dal pompare del sangue nelle vene, dall’espansione e contrazione dei polmoni. Trasalendo all’assordante strombazzare dei clacson, ai fischi dei vigili, alle voci umane e volgari che si levano da dietro i banconi del mercato ittico, prendo coscienza di trovarmi nuovamente irretito nelle frenetiche attività umane che sembrano non conoscere tregua, non ammettere soste. Ai miei sensi, pervasi dalla breve conoscenza dell’eternità che il mare mi ha bisbigliato alcuni istanti fa, la perentoria manifestazione di civiltà suona come una bestemmia. [...]
Il delfino di quercia è sempre al suo posto. Lentamente mi svesto e mi calo in acqua ignorando il suo rigore e la contrarietà del clima. Il gelido abbraccio dell’onda mi strappa dal greto trascinandomi alla fonda. La viscida schiena del mostro è più vicina di quanto pensassi. La foschia ne inghiotte libidinosamente la pinna brunita del dorso, arcuato nel suo balzo imperituro. Raggiungo a nuoto la catena dei frangiflutti. Mi isso tremolante su uno scoglio scurito dalle alghe e dal riverbero plumbeo del mare. L’acquolina mi stende sulle spalle il suo velo raggelante. La sirena del faro ulula indicando la direzione del porto all’imbarcazione che ne ha smarrito il segnale luminoso. Alza e abbassa il proprio lamento artificiale cavalcando il flusso e riflusso delle onde, quasi si trattasse del verso agonico di una creatura marina. Forse s’è arenato un altro capodoglio come accadde quando ero bambino e la sfortuna volle che l’ultima foratura dell’auto di mio padre m’impedisse di ammirarne l’ampia coda nera percuotere, disorientata, la superficie del mare, ma è talmente improbabile che un evento così eccezionale possa ripetersi in un lasso di tempo altrettanto breve che da allora nessun cetaceo, per sua fortuna, è stato più visto dibattersi in questi lidi. Mi propongo di normalizzare le funzioni vitali, rallentate dalla glaciale abluzione, inspirando profondamente. Smetto di tremare. La pelle riacquista parte del proprio colorito sanguigno. La volontà si riattiva, sferzata dall’intempestiva nuotata. Mi sollevo sulle gambe vacillanti e prendo a balzare di scoglio in scoglio finché raggiungo il tronco di quercia. I flutti irrequieti del mare aperto si frangono contro l’apposita barriera. L’Adriatico si gonfia. Le onde s’insinuano tra gli anfratti smuovendo le rocce dalla base e facendo scricchiolare il legno poderoso incastrato tra di esse. Ancora non esiste struttura capace di contendere all’impeto dell’elemento liquido. Deluso da tale scoperta, abbandono il mostro immaginario prima che un’ondata violenta possa cavarlo da sotto i miei piedi e schiantarlo sulle rocce. Discendo il macigno sdrucciolevole per immergermi nuovamente. Per la prima volta dal mio ultimo successo, il raggiungimento dell’atollo, il senso di precarietà dell’essere, che mi ha accompagnato negli anni, torna a opprimermi e perseguitarmi. Pencolo in balia della corrente, che mi intormentisce le parti sommerse con la puntura di mille aghi di ghiaccio, scrutando mesto la superficie che mi cinge quasi aspettandomi che la testa mostruosa d’un grosso squalo, dalle mascelle sguainate e dai pallidi occhi rovesciati, ne emerga da un momento all’altro per trascinarmi nelle insondabili profondità dell’abisso; l’eburnea corona di denti triangolari affiorare di traverso dal pelo dell’acqua per serrare la propria stretta letale su di me. Dopo una serie interminabile di bracciate, con la risacca che mi ricaccia verso il mare aperto, guadagno finalmente la riva. [...]

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